A Ruota Libera, il libro di Federico Longo. In bicicletta per superare i luoghi comuni
Nel leggere il libro di Federico Longo, mi sono rivisto, per alcune frazioni nel suo testo, quando durante una estate di parecchi anni orsono, visitavo Roma in bicicletta e dopo le bellezze della città affrontavo il tragitto che mi avrebbe portato a Tivoli. Ora, se dopo 25 anni di diffusione di “cultura” ciclistico-urbana le cose sono al punto in cui le vive e le descrive l’autore del libro A Ruota Libera,
mi chiedo a che cosa sia servito il mio, il nostro sforzo di diffusione della necessità, della opportunità e della bellezza dei valori della ciclabilità (in tutti i suoi aspetti di urbano, turistico e di evasione) e della educazione proposta a tutti i livelli istituzionali in tal senso. La risposta o le non risposte che troviamo in questo libro hanno dell’incredibile. Sovrastata dai luoghi comuni, non mutati, la bicicletta risulta pericolosissima nel traffico cittadino, non tanto per la difficoltà della percorrenza del tragitto casa lavoro, o casa parco giochi, o casa gita fuori porta, ma perché l’uso della bicicletta si è trasformato in uno strumento insuperabile mentalmente nella cultura dell’automobilista che, sostiene l’autore, “ho l’impressione che il cosiddetto traffico sia un essere multiforme che vive di vita propria; come in un esperimento in cui l’uomo ha perso il controllo sulla macchina e questa ormai determina ogni nostra azione e pensiero”. E l’approfondimento che ne fa Federico Longo dell'associazione Salvaiciclisti di Roma diventa un vero e proprio programma accusatorio del comportamento mentale dell’automobilista (che non è più in grado di vedere il bene o il male che fa a se stesso o fa agli altri) e fisico che compromette la salute sua e degli altri con l’alto costo in vite umane, di spese sanitarie, di inquinamento e di aumento del tempo di percorrenza. A Roma certificate 250 ore all’anno a bordo dell’auto, 30.000 incidenti, 150 morti ogni anno e aria fuorilegge quasi perennemente; una città che “disprezza le biciclette”. Seguendo l’autore lungo le sue impegnative, ma rilassanti giornate in bicicletta, appare una città nemica, che non sa come e che non vuole riscattarsi da una mentalità legata all’utilizzo dell’auto.
L'autore di questo diario, ci offre l’opportunità di seguirlo per una Roma “conosciuta” consegnandoci una visione insalubre per il ciclista da molti punti di vista. E partecipiamo al suo dolore quando sbatte contro la portiera di un’auto, quando cade rovinosamente a causa di una buca, una delle tante, troppe che tappezzano la città, quando si affligge per le auto in terza o quarta fila, o “infestano lo spazio pubblico come l’erba gramigna”, o per una indecifrabile e incomprensibile impossibilità di entrare o parcheggiare la bici, in parchi, in ville, in biblioteche, o quando ancora si confronta con la paura, “ombra nera” che diventa sfida, minaccia, provocazione. Ma tra le righe, tra le sue pagine irruenti e impietose, nasce un ciclista urbano innamorato della città che “tra il mistico e il drammatico” gli concede di essere libero, di pensare e di risolvere i problemi pedalando, di vivere itinerari adatti alla due ruote e al carrellino con Margherita nei parchi, di fermarsi per una birra, di relazionarsi con amici, disposto a consumare la sua tecnica vincente verso l’automobilista, il traffico, la municipalità con “indifferenza felina”.
Il ritmo della sua scrittura è veloce quasi pedalabile; le parole e le frasi schiette e coraggiose; pensieri e ragionamenti avvincenti e persuasivi. E dietro la spietata denuncia contro il comportamento di tutti e di quello della sua città, affiora la speranza (che poi è quello di tutti i ciclisti urbani e cicloturisti) di poter vivere in città a misura di bicicletta dove l’idea rovesciata della mobilità offre dignità all’uomo che non inquina e definisce “le auto occupanti abusive, reiette disturbatrici della quiete pubblica, pericolose criminali che creano panico nelle strade e nelle piazze”. Federico Longo questa speranza non l’ha sognata; l’ha vissuta e sperimentata nelle capitali nordiche di Danimarca, Olanda, Finlandia e Germania. A noi ciclisti giornalieri resta il livore, il sangue amaro e l’illusione di sentirsi dalla parte giusta e dover combattere, chissà per quanto tempo ancora, sacrificandosi sconsolati per il momento ma con la speranza che le nostre città diventino fruibili da tutti.