Sarajevo - Skopje, percorso in bicicletta per duri

Da Trieste ad Istambul - fino a Sofia(seconda parte)

Si dice che il mondo sia piccolo, figuriamoci Sarajevo: sto per ripartire quando sulla bici trovo un biglietto degli amici cuneesi: tra i molti alberghi della città abbiamo soggiornato nello stesso, senza avere la fortuna di rivederci.

Sarajevo - Scepan Polje km 110

Appena fuori città riappaiono i cartelli della repubblica Srpska, alla mia destra il monte Igman, una volta sede di gare delle olimpiadi invernali ’84 e più tardi famoso perché ospitava le milizie serbe durante la guerra. Il ritorno nella Bosnia rurale avviene in maniera repentina, Sarajevo è adagiata in una conca lunga circa 10 km dalla quale partono diverse valli alcune delle quali completamente disabitate. Una di queste mi porta a Foca, ultima cittadina prima del confine montenegrino.

Improvvisamente il fondo stradale peggiora, la strada costeggia la Drina e salendo dolcemente crea uno dei tanti canyon che rendono questa zona nel cuore dei balcani il paradiso del rafting. Il posto di frontiera col Montenegro è solo una formalità burocratica senza impicci. Diventa più complicato attraversare il ponte sul fiume costruito con assi di legno disposte con poco criterio. Più di una volta la ruota anteriore si infila tra due di esse. Meglio scendere per qualche metro.

Proprio qui confluiscono Tara e Piva, fiumi dalla cui unione nasce la Drina che ho appena costeggiato. La zona è satura di campeggi attrezzati con kayak, tute da sub e jeep per la risalita, ma oltre a questi il nulla. Da Foca a Zabliak percorrerò oltre 80 km. senza incontrare villaggi e abitazioni di nessun tipo. Questa zona prende il nome di Scepan Polje, 600 mt sul livello del mare, fiumi nascosti in fondo a canyon profondi e ripide montagne tutt’attorno. E' il 13 agosto e tutto ciò non giustifica i 4 gradi della notte e i 9 della mattina.

Scepan Polje – Zabliac km 80

Saluto il motociclista belga che ha dormito nella tenda accanto alla mia, le uniche presenti del campeggio, e ben coperto affronto le prime rampe della giornata. Seguono diversi chilometri di pianura in una valle stretta e tortuosa con il percorso che attraversa da una parte all’altra con ponti stretti che paiono paurosamente incastrati tra due pareti di roccia. Il paesaggio, così raccontato, può sembrare noioso, ma dopo ogni curva o piccolo tunnel lo stupore ha il sopravvento. La parete rocciosa che costeggia la strada da diversi chilometri è interrotta dalla bocca di una galleria che sembra abbandonata, si tratta invece del bivio dove inizia la salita al parco del Durmitor. La strada sale inizialmente ripida e tortuosa per almeno 10 chilometri per poi addolcirsi fino ad un piccolo rifugio dove mi fermo per un modesto rifornimento e raccontare ai pochi turisti presenti il mio viaggio.

La carreggiata si stringe e prosegue con diversi saliscendi attraversa villaggi abbandonati e malghe deserte. Sullo sfondo appare già imponente il Durmitor, la montagna che dà il nome a questo bellissimo parco. Scollino ai 1800 metri dove un pastore mi saluta indifferente durante la breve discesa Il vento si alza ma è favorevole e sembra volermi essere di sostegno nell’affrontare l’ultima salita fino ai 1900 metri, punto più alto della giornata. Faccio due parole con un gruppo di ciclisti polacchi, ci scambiamo informazioni utili per il proseguo del nostro viaggio, e sui nostri viaggi precedenti.

Ora solo discesa, ripida e stretta, resa ancora più complicata dai numerosi bovini che, incuranti, pascolano liberamente sull’asfalto. Zabljak è un piccolo borgo montano dove ha sede il parco del Durmitor, sembra un piccolo paese dolomitico: montagne, pinete ordinate, un ufficio turistico e una piccola stazione di autobus. Per dormire ci sono due alberghi e parecchi affittacamere. La padrona di uno di questi mi porge il suo biglietto da visita, è gentile e decisa allo stesso tempo. Mi offre una camera in casa sua con connessione wifi e tanto basta per convincermi a seguirla.

Zabljak – Andrejevica km 151

Saranno stati il paesaggio mozzafiato, o la facilità con cui giravano le gambe fatto sta che senza capire come, ho sbagliato strada allungando la già difficile giornata di 25 km. Cartina alla mano scelgo il percorso alternativo da seguire, sempre ben fornito di salite, mucche pascolanti sull’asfalto e carri agricoli. I villaggi scarseggiano ed hanno nomi impronunciabili, il traffico da queste parti non sanno nemmeno cosa sia. Si notano auto solo nei cortili e l’unico rumore è quello dei miei copertoni che scorrono sull’asfalto ruvido. Il dislivello da affrontare è notevole, sembra un tappone del Giro, e solo ora realizzo che il nome Montenegro spiega appieno le caratteristiche morfologiche del paese.

Discesa ripida, due tornanti e la valle si apre improvvisamente: cumulonembi sulle vette, il verde dei boschi quasi fosforescente e terrazzamenti situati in posti improponibili, fanno sembrare questo posto un paesaggio andino. A spezzare questa illusione scorgo in lontananza un viadotto che taglia in due la montagna e finalmente due costruzioni che sembrano dei bar. Fa caldo e sono senz’acqua da parecchi chilometri e il luogo tanto agognato appare e scompare a seconda dell’ esposizione della strada, quasi fosse un miraggio. Bevo avidamente una bevanda dolciastra dal nome e dal gusto misteriosi, l'anziano gestore mi parla in tedesco, non capisco le parole ma quando si presenta con una canna da cui sgorga acqua freschissima rispondo anche io in tedesco “ ja ja ja danke schoen”.

Abbassare la temperatura del corpo in queste circostanze aiuta anche il morale. Si risale ancora per il secondo colle breve, ma duro e trafficato. Per pochi chilometri percorro la strada che arriva da Podgorica e anche il traffico pesante torna a farsi sentire. Kolasin è una piccola cittadina, vivace e ordinata che non sembra curarsi del mio passaggio, un' enorme piazza lastricata di traversine della ferrovia satura l’aria di un odore tremendo di catrame: sicuramente non molto salubre. Cerco indicazioni per Andrejevica, ma ricevo solo offerte di camere per la notte.

Finalmente dopo una strettoia trovo un cartello datato e vissuto che mi indica la giusta via. Una lunga fila di abitazioni sulla mia destra costeggia la strada in questa stretta valle, in ogni giardino o cortile i bambini interrompono i loro giochi al mio passaggio, stupiti forse per la bici o forse di vedere uno straniero in questa remota località dell’entroterra montenegrino. Il fiume alla mia sinistra ha una portata limitata e acque limpidissime. Anche il paesaggio che mi circonda sembra essere immacolato e preservato da ogni forma di inquinamento. Un vero paradiso se non fosse per le pendenze che cominciano a farsi impegnative fino al passo situato a quota 1800 metri. A volte le discese possono essere più faticose e usuranti delle salite, questa verso Andrejevica è lunghissima piena di curve insidiose, cani randagi, pochi mezzi parcheggiati ovunque e soprattutto un asfalto più simile ad un gruviera che ad una strada.

Andrejevica – Peje (Pec) km 99

Ero l’unico cliente di questo spento ma gigantesco hotel, tetro da sembrare quello di Shining, ma posto in una posizione talmente centrale da non spaventare nessuno. Il ragazzo alla reception ieri sera si è prodigato in mille modi, telefonando a polizia ed enti locali perché secondo lui ( ed era proprio così) la strada che intendevo fare per entrare in Kosovo non è praticabile. Mi ha spiegato che c’è la polizia alla frontiera è piuttosto metereopatica, ma non c’è dogana quindi, anche nel caso mi lasciassero passare, non mi timbrerebbero il passaporto, e la cosa diventerebbe un problema serio al momento di uscire dal Kosovo. Ho passato la serata precedente ha consultare siti internet, fare telefonate agli amici che mi aspettano in Kosovo e fare calcoli sulla cartina. La soluzione è un cambio di percorso che rende più impegnativa la giornata, però mi permette di entrare in Kosovo senza problemi.

Ritorno in parte sulle strade percorse ieri e arrivo a Berane. Vengo accolto da un gigantesco cartello col nome della cittadina scritto in cirillico, enormi cumuli di rifiuti a bordo strada ed altrettanti cumuli di legna da ardere nei cortili degli imponenti condomini della periferia: ricordo evidente degli anni del comunismo in ex-jugoslavia. Percorro altri 15 chilometri ed entrando a Rozaje ho l’impressione di trovarmi in due posti diversi nello stesso momento. Il paesaggio è tipicamente alpino, ma al posto dei campanili delle chiese si scorgono solo minareti, non c’è odore di strudel o wurstel, ma quello speziato del kebab o quello dolce dell’agnello alla griglia. Niente jodler, ma musiche di chiara origine turca, qualche impianto di risalita e donne col capo coperto.

Appare a prima vista come un forte contrasto, qualcosa di anormale e stridente. Si tratta invece si una splendida realtà, differente da ogni stereotipo imposto e, proprio per questo, di una bellezza quasi disarmante. Al bivio giro a destra verso Peje, Kosovo, l’alternativa era di proseguire diritto per Mitrovica, altra cittadina kosovara che ancora non ha ricominciato a vivere in serenità e soffre di divisioni interne con vittime tutt’oggi. Manca un chilometro al confine; due montenegrini fermi a bordo strada mi offrono acqua e cioccolato ( energy, amico, energy!!!), sono i primi che non mi danno del pazzo pur sapendo che sono diretto in Kosovo e questo mi conforta. Scollino a quota 1800 mentre Peje, dove mi attende l’amico Dashi, è a quota 300. Mi aspetta una lunga discesa dalla quale posso vedere tutto il Kosovo: un’ immensa pianura circondata da montagne che ne segnano il confine.

E ho la conferma visiva che la guerra scatenata dai serbi era per questa distesa di terra e la religione c’entrasse un po’ meno di quello che ci hanno raccontato. Con uno stupore simile a quello dei doganieri Kosovar quando mi hanno controllato il passaporto, il mio primo incontro nella terra di Rugova, è con un cicloturista tedesco, giovane e ben attrezzato, sta ritornando a Friburgo dopo aver girato per tutta la ex jugoslavia. Credo che Peje giustifichi, in parte, tutti i pregiudizi che la gente ha sul Kosovo: strade malconce, automobilisti indisciplinati e ragazzini eccessivamente interessati alla mia bicicletta e alle mie borse. Prizren è invece completamente differente.

Ci arrivo dopo un breve viaggio in macchina con Dashi, e ho modo di visitarla in lungo e in largo sia di giorno sia di sera dove per l’aria vacanziera e il clima agostano sembra di essere in una qualsiasi località di villeggiatura della costiera romagnola. Sono tutti Kosovari che rientrano a casa da mezza Europa per godersi, per poco tempo, la loro città. Io mi sento come a casa, dopo l’incontro con Dashi, mi aspettano a casa di Durim, collega e amico che purtroppo è dovuto ripartire, ma mi ha lasciato in compagnia della mamma e della sorella. La serata è una di quelle che non si dimenticano facilmente e più che bergamasco in Kosovo mi sento un kosovaro con l’accento orobico.

Prizren – Skopje km 107

Tappa corta, partenza posticipata. Anche perché ieri sera s’è fatto tardi e devo ancora fare qualche foto a Prizren. La piazza principale affacciata sul fiume e sul ponte ottomano rappresenta per me un po’ l’essenza di questo viaggio. In poche centinaia di metri convivono e quasi confinano la chiesa cattolica, quella ortodossa e la moschea per il culto mussulmano. Lo hanno fatto per secoli e la speranza è che continuino a farlo in perpetuo. Prima di raggiunger Skopje, devo affrontare ancora una salita lunga e calda. Vengo informato della presenza di alcuni villaggi serbi lungo la strada, ma la cosa non dovrebbe interessarmi visto che sono straniero, mentre per i kosovari potrebbe esserci qualche rischio

. Il caldo prosciuga le mie gambe e le mie borracce. Un ragazzo che sta innaffiando il giardino mi offre dell’acqua. Lavora a Milano, muratore con il padre e il fratello, tra pochi giorni torneranno in Lombardia e forse racconteranno con orgoglio ai loro colleghi di quel italiano che è venuto in ferie in Kosovo. KFOR è la sigla sotto la quale si riconoscono i militari Nato in servizio in Kosovo. Alcuni, tra cui gli italiani, sono di stanza a Peje, gli altri sparsi nei punti caldi del paese. Nel sud del paese la loro presenza passa quasi inosservata, forse per discrezione o forse per mancanza di effettive esigenze.

Gli unici soldati Nato che incontro sono quelli che coadiuvano il controllo alla frontiera con la Macedonia. Il primo cartello incontrato in terra macedone è un bel divieto per le biciclette! Si fa presto a mettere il divieto, ma se non si offrono alternative, si fa altrettanto presto a non rispettarlo. Quindi pedalo, da fuori legge, fin quasi alle porte di Skopje. Capitale multiculturale, Skopje è molto trafficata e complicata per un ciclista. L’albergo è in posizione centralissima e la bici dorme in camera con me e come me si può godere la vista sulla piazza centrale della città con tutta la gente a passeggio. L’enorme statua equestre sovrasta la meravigliosa fontana. Ma sarà uno spettacolo di breve durata.

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