Da Firenze al Mare Adriatico. Arno, Tevere, Chienti. Toscana, Umbria, Marche. Giubileo 2025

Alcune parole, alcuni aforismi, bastano da soli a evocare una città, un luogo, un territorio. Diventano simboli di una Storia, di un film, di una vita. Pochi luoghi possono però vantare il privilegio di essere racchiusi in un endecasillabo o, forse, già nelle prime sue quattro voci: “Sempre caro mi fu...”. Recanati.

 

 Ma per comprenderlo, ci sono voluti più di 400 chilometri di viaggio in bicicletta, giornate serene trascorse ad osservare, momenti di solitudine per meditare, fatica e sudore nel superare pendenze ostacoli difficoltà di altro genere. Tutto o quasi è descritto in questo itinerario di cinque tappe, sei 6 giorni, che sottopongo alla vostra lettura.

Ciaobici Arno

Primo Giorno. Da Firenze Rifredi a Poppi 60 km

La destinazione mare adriatico con partenza da Firenze - stazione  Rifredi di facile arrivo da Verona con bici al seguito - è un itinerario pensato non solo come movimento nello spazio, ma anche come possibile trasformazione interiore. Un ciclo-viaggio giubilare insomma. L’itinerario conduce presto fuori città, a tratti lungo l’Arno, con un traffico non eccessivo e con tratti di strada più o meno ciclabile. Non si presenta proprio d’argento il colore dell’Arno, stretto tra rive erbose e paludose, e che scorre placidamente.  L’entusiasmo della partenza e la freschezza delle forze permettono di raggiungere l’inizio della salita del passo della Consuma abbastanza in fretta. L’alimentazione è indispensabile ed ognuno sa come regolarsi secondo le proprie esperienze.

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Da Pontassieve si sale prima lievemente, ma poi il dislivello non lascia tregua almeno per una quindicina di chilometri. La pendenza varia in alcuni tratti, ma sostanzialmente si mantiene su 8% con picchi al 10%. Il tragitto è davvero un percorso affascinante per gli amanti delle due ruote. La salita impegnativa è immersa nella natura, con tratti che offrono viste spettacolari sulla campagna e le montagne dell’Appennino. Il calore della giornata è mitigato dall’ombra della vegetazione. Sto utilizzando una e-bike e naturalmente l’occhio è spesso sul consumo della batteria. Modulando lo sforzo ho l’aspettativa di raggiungere la cima senza dover consumare più del dovuto. Pedalare tra le colline toscane, circondato da boschi e vigneti, è un’esperienza molto piacevole e rigenerante. Qualche fermata lungo la strada per recuperare forza e fiato, scattare qualche foto mi permette di godere della libertà ritrovata ancora una volta nel ciclo-viaggio: un modo per vivere la strada più intimo e autentico, beneficiando di gustare ogni dettaglio lungo il percorso; un modo fantastico per unire passione per sport e tempo libero con il desiderio di esplorare il mondo!

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Raggiunta la cima, il panorama ripaga lo sforzo con una vista sulle colline toscane e sull’Appennino e i loro profili dolci e le cime che si stagliano all’orizzonte. Sul belvedere sono parcheggiate molte moto, super moto, che in fila, rumorose quanto basta, mi avevano superato e salutato lungo la salita. E mentre io bevevo vitamine e aprivo barrette, i conducenti delle moto si prodigavano a dissetarsi con bicchieri di birra schiumosi e colmi. Brevi saliscendi conducono successivamente alla discesa finale verso Poppi. In questo borgo il ben conservato Castello dei conti Guidi si propone alla vista con la mole della sua torre a ricordare l’importanza storica, strategica e difensiva avuta nel XIII-XIV sec.

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Secondo giorno. Da Poppi a Città di Castello 80 km

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È ancora l’Arno a guidare il percorso, anche se poco visibile a causa di vegetazione spontanea lungo le rive scoscese. Il mio programma prevedeva una visita al santuario francescano di La Verna, ma le gambe erano troppo stanche dopo la salita della Consuma del giorno precedente. Ho deciso di rinunciare ad un’altra fatica e ho scelto di seguire la SR 72, che scorre verso valle. L’itinerario è modesto, con traffico continuo, e l’Arno si intravede solo in occasione di qualche ponte. Pochi sono anche i punti paesaggistici di interesse. L’attenzione si sposta sui gruppi di ciclisti sportivi che, numerosi, scorrono in senso contrario. I saluti tra di noi creano un senso di vicinanza, anche in questa giornata di strada. Riflettendo sulla banchina a destra, noto diversi difetti: la parte di asfalto che sto percorrendo è spesso sconnesso, e il bordo esterno è alto e pericoloso da affrontare. L’erba recentemente tagliata presenta oggetti di plastica e carte, tritati e lasciati lì da tempo immemore; il che mi fanno riflettere su quanto sia difficile sperare in un mondo migliore.  Perfino un umoristico cartello in un bar nei pressi di Giovi, faceva l’autocritica sulla cattiva abitudine di non utilizzare i luoghi di raccolta dei rifiuti, preferendo invece la i bordi strada più “comodi”.

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Mi fermo a prendere un caffè a Subbiano e, all’improvviso, vengo attratto dalla quiete di questo paese. La guida cartacea che possedevo non citava il luogo. Sono alcuni anziani seduti fuori dal bar a darmi qualche notizia, che successivamente approfondisco. Subbiano è il primo borgo che si incontra sulla riva sinistra dell’Arno. “Importante via di comunicazione fin dall’epoca romana, strettamente legata a quella del fiume. La parte più antica si affaccia sull’Arno, e sulla sua riva si erge la torre merlata del Castello. Di qui passavano i pellegrini che raggiungevano Roma lungo la Via Romea Germanica”. La visita del borgo, con le sue strette vie lastricate, mi incanta. Intuisco una grande cura nella pulizia delle strade. Tuttavia, mi sorprende l’assenza di abitanti, e a spiegarmelo è una coppia di anziani: lui disabile.  “Subbiano ha vissuto un fenomeno di declino demografico negli ultimi decenni. La popolazione è diminuita nel tempo a causa dell’emigrazione verso le città più grandi”. Aggiungono: “La popolazione residente si aggira intorno ai 4.000 abitanti, e sono rimasti soprattutto gli anziani”.

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A mia domanda rispondono: “Sì, a Subbiano ci sono scuole dell’infanzia, elementari e medie, ma pochi luoghi di aggregazione.” Sviscerano anche un pensiero:  “ Il problema  sono i giovani: sono sempre sul telefonino, leggono o ascoltano solo le cose che i media propinano, come canzoni o notizie che intorpidiscono loro il cervello”. E raccontano: “La sera si riuniscono in questo luogo, al buio, bevono, fumano, fanno chiasso, scrivono sui muri e lasciano disordine. Perfino i fiori dai vasi con i quali tentiamo di abbellire il nostro borgo vengono strappati e portati via”.

 

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Lasciando questo candido e onesto borgo con un po’ di amarezza, mi rendo conto di quanto sia difficile invertire questa tendenza.  Gli anziani sono ancora seduti davanti al bar. Hanno terminato il caffè, si appresteranno a sorseggiare l’aperitivo. Uno di loro sta lottando con il suo “gratta e vinci”.  “Buona fortuna e buona vita, Subbiano”.

La nuova direzione, prevede la salita al valico della Scheggia, lungo la via SP 57 ma non sono preoccupato: un dislivello sopportabile e pedalabile, una salita capace di regalare momenti di autentica emozione.
Dove la vegetazione si dirada, lo sguardo si apre su vallate e profili lontani, rivelando panorami imprevisti. La strada si snoda al fresco, sotto l’ombra gentile degli alberi. Si respira aria pulita, e la mente si lascia andare alle fantasie. Talvolta, un rombo si avvicina e squarcia il silenzio e interrompe le fantatasie: sono gruppi di motociclisti che irrompono nella quiete con il fragore dei loro motori. La concentrazione vacilla per un istante, ma non è un disturbo: è una parentesi di forza, addolcita dalla simpatia. Sfilano come cavalieri d'altri tempi, salutano e scompaiono a guisa di veri sovrani in sella ai loro troni d'acciaio.  

Superato il valico e successivi saliscendi, inizia la discesa, continua veloce e piacevole, fino all’incrocio con la deviazione per la salita ad Anghiari. In questo luogo Visito la chiesa Santa Maria delle Grazie e resto colpito da una grande terracotta dei Dalla Robbia sull’altare maggiore e da una Ultima Cena del 1531 ad olio su tavola, di G. A. Sogliani. (Giovanni Antonio Sogliani, è un artista rinascimentale toscano. La sua Ultima Cena ad Anghiari (1531–33), olio su tavola nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, è una delle sue opere più celebrate e studiate.)

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Al termine di questa visita Google Maps mi guida lungo un percorso in parte sterrato, seguendo l’itinerario de “L’Intrepida”. Provo l’emozione di attraversare questo importante e storico tragitto, fino a raggiungere la deviazione per Città di Castello. A questo punto una decina di chilometri lungo un viale periferico mi introduce gradualmente nel vivace compendio urbano della città: industrie, attività commerciali di ogni genere e ampie strutture di servizio si susseguono in bella mostra. Insegne, riferimenti alle lavorazioni e un’ostentata modernità caratterizzano questa zona dell’Alto Tevere umbro, dove lo spazio sembra non mancare.

Terzo giorno. Da Città di Castello-Foligno 110 km

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Città di Castello è una città ordinata e raffinata. Durante la visita mi rendo dell’importanza attribuita al turismo e quanto il settore turistico stia vivendo un buon momento. Riassumo le indicazioni passatemi dall’ente di promozione turistica della città:

 

 “ll turismo a Città di Castello è costituito da una combinazione di elementi culturali, artistici, storici, naturali ed enogastronomici. Centro storico rinascimentale ben conservato, con palazzi nobiliari, piazze eleganti e chiese. Musei e gallerie, Pinacoteca Comunale: una delle più importanti dell’Umbria, con opere di Raffaello, Signorelli, Pomarancio. Fondazione Burri: dedicata ad Alberto Burri, artista di fama internazionale nato qui. Comprende Palazzo Albizzini e gli Ex Seccatoi del Tabacco, straordinario esempio di arte contemporanea in un contesto industriale riconvertito. Cattedrale dei Santi Florido e Amanzio: simbolo religioso e architettonico della città.  Ambiente e natura: Valle del Tevere: il paesaggio collinare e fluviale offre percorsi per escursioni, cicloturismo e fotografia naturalistica. Sentieri storici: come “L’Intrepida”, una ciclo-storica su strade bianche, o i percorsi francescani che collegano con altri luoghi umbri spirituali e naturali.  La cultura poi propone eventi come il Festival delle Nazioni  dedicato alla musica da camera che attira artisti e pubblico da tutta Europa. Mostre d’arte, rassegne teatrali e concerti: la città è molto attiva culturalmente durante tutto l’anno.  Dulcis in fundo l’enogastronomia: ristoranti e agriturismi propongono la cucina tradizionale dell’Alto Tevere, con influenze toscane e marchigiane. Tartufo bianco e nero, funghi, salumi, formaggi, olio extravergine d’oliva e vini locali sono gli ingredienti speciali dei piatti tici. L’artigianato e la tradizione produce la tessitura umbra,  ancora viva, con botteghe che producono manufatti artigianali di altissima qualità. Infine la ceramica e la falegnameria.
 

 

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 Tutto questo non sarebbe possibile senza una ampia offerta di strutture: agriturismi, B&B, relais storici e hotel diffusi nel centro storico e nei dintorni rurali.” Ma quello che resta della visita è l’eleganza e la pulizia del centro storico: salotto nobile dove gli ospiti ricevono le coccole da attenti servitori di corte. Dispiace aver dedicato poco tempo alla scoperta di questa città, ma anche solo in poche ore ha saputo rivelare un fascino autentico e un’ospitalità rara. Rimarrà impressa nella memoria di questo ciclo-viaggio come un piccolo cameo: un dettaglio prezioso, capace di restituire emozioni ogni volta che lo indossi, lo pensi o lo osservi. Un frammento che, pur nella sua brevità, arricchisce la voglia di ritornarci.

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Un percorso piatto conduce lungo la valle tiberina. Cicloamatori in gruppo e singoli testimoniano la vivacità di questa attività anche in questa regione.  Alcune visioni testimoniano la cura per il paesaggio e della agricoltura, il transito di pellegrini sul cammino francescano, e l’incontro con capitelli e chiesetta toccati dal santo. Entro nello sterrato lungo il Tevere, ben sistemato, luogo di passeggiate e di relax. Il fiume, scorre quasi incerto e indeciso. Non ha il vigore che richiama il suo nome, ma produce un percorso in questo tratto, adatto a passeggiate ed escursioni. Poco più avanti diventa “Percorso Verde” migliorato su fondo ben battuto, e ben attrezzato con panche e tavoli. E’in uno di questi luoghi di sosta che scambio opinioni con un escursionista del luogo che, saputa la mia destinazione, mi invitava a raggiungere Norcia con la famosa ciclabile ex ferrovia. Assisi ormai è alle porte, ma seguo indicazioni per Santa Maria degli Angeli per ottemperare anche al mio viaggio giubilare. Assisi che appare nella sua maestosità sopra la sua dimora collinare è stato un piacere rivederla dopo alcuni anni.

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Dal silenzio del piazzale di Santa Maria degli Angeli, in questo pomeriggio assolato e con pochi pellegrini, alzo lo sguardo verso il colle. Assisi si staglia là in alto, come un presepe di pietra posato con cura sulla collina. La calura produce una luce leggermente offuscata, ovattata, ma   accarezza i tetti rosati, le mura antiche, le torri che si ergono con grazia tra cipressi e nuvole leggere. La città sembra immobile avvolta in una pace che sa di secoli. Eppure, conoscendola da precedenti visite, sento un respiro vivo che sale e scende lungo le sue strade in salita, come un cuore che non ha mai smesso di battere, piano, fedele. In effetti da quaggiù, Assisi non appare distante: sembra piuttosto sospesa, quasi un pensiero, una preghiera,
una invocazione che nasce dalla terra ma che contempla il cielo. La Basilica di San Francesco si riconosce subito, abbarbicata sul margine della roccia, e tutto intorno, gli uliveti che scendono quasi volessero suggerire un incontro tra la valle e il cielo. Meditando, sento questo luogo parlarmi, non con parole, ma con la sua stessa bellezza, con il modo in cui la luce si posa sulle pietre, con il profumo di terra che sale nell’aria all’esterno e che diventa d’incenso entro le sue porte.. “San Francesco, invisibile ma presente, sembra camminare ancora tra gli ulivi, mentre il vento spinge in basso, fino alla Porziuncola, l’eco dei canti e delle preghiere antiche”. E resto a mirar la città del Santo, ogni volta sempre nuova, e perfino il pensiero si fa silenzio.

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Ancora una ventina di chilometri per raggiungere la meta della giornata: Foligno. Lungo strade secondarie, dove la collina si apre lenta, e piccoli borghi arroccati fanno capolino tra il verde (Spello) la campagna, ordinata e assolata, porta ancora i segni dei raccolti recenti e delle nuove semine: una terra che non smette mai di raccontare il suo lavoro, tra silenzi dorati e promesse di vita.

Quarta giornata. Da Foligno a Tolentino 70 Km

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Foligno ha un bellissimo Ostello, ma quella sera era tutto esaurito. La cortesia della reception mi permise di trovare ubicazione altrove ma ancora mi piange il cuore per non aver potuto godere dell’ospitalità di questo luogo.

 

 Situato a Palazzo Pierantoni, l’Ostello è un esempio di splendida architettura realizzata nel’600, formato da costruzioni di epoche diverse. Conserva un ninfeo con residui dell’originario giardino e del pergolato. Dal 1879 fino al 1981 è stato Monastero delle Agostiniane provenienti da Santa Maria di Betlemme. “L’Ostello gode di una posizione centrale a dir poco privilegiata: a pochi passi dal cuore della città antica, nota per essere il luogo in cui San Francesco rinunciò ai beni terreni, dal Duomo, dal Santuario di Sant’Angela e dai numerosi Palazzi storici della nobiltà antica, a pochi metri dalla stazione ferroviaria e dei bus. E’ immerso nel silenzio e nel più totale relax. Nel suo giardino interno si possono trascorrere momenti di lettura, riposo o fare conoscenza con gli altri ospiti della struttura. Un ampio parcheggio auto privato e sala ristorante con oltre 100 posti completano l’accoglienza. Ogni dettaglio è stato predisposto per rendere la permanenza degli ospiti gradevole pur nella semplicità e nella libertà che contraddistinguono gli Ostelli.”   La sua posizione di vicinanza a centri minori (corollario di gemme) ne fanno una location strategicamente favorevole per ogni tipo di escursione-pellegrinaggio, itinerari naturalistici, cicloturismo, gite in Famiglia.

Camminando tra le  silenziose vie di Foligno si respira la grazia antica di una città che unisce eleganza e autenticità. Ogni pietra, ogni chiesa, ogni palazzo nobiliare custodisce frammenti di una storia che pulsa ancora oggi, tra tradizioni che si tramandano con fierezza e una cultura gastronomica che sa di casa e di festa. Racchiudere tutto questo in poche righe è come voler fermare il vento: impossibile. Foligno va scoperta lentamente, con lo sguardo curioso e il cuore aperto. "Foligno non si racconta, si vive”.

 

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Lasciando la città, arriva la parte più interessante del viaggio: devo attraversare l’intera città per raggiungere l’Abbazia benedettina di Sassovivo. Tra incroci, sottopassi e deviazioni, finisco per girare in tondo più volte, ritrovandomi sempre allo stesso punto. Google Maps, disorientato dalle strette intersezioni, fatica a darmi indicazioni in tempo reale e, per un attimo, mi illude pure che seguendo il suo consiglio  potrei persino arrivare a Colfiorito, la meta finale prevista della giornata. Alla fine, chiedendo informazioni e con un po’ di pazienza, riesco finalmente a imboccare la strada giusta: quella che sale fino ai 600 metri d’altitudine, dove si trova l’antica abbazia. Una piccola conquista, tra moderne tecnologie e vecchie strade umbre.

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Trovata la via, una breve e non impegnativa salita mi conduce fino dove sorge l’abbazia. Nessun traffico, solo qualche passante che va o che viene. Al mio arrivo, quasi un invito, il campanile fa sentire i suoi rintocchi: un saluto solenne, immerso nel silenzio assoluto dell’area circostante. La porta d’ingresso è aperta. Nessuno controlla, nessuno chiede nulla. In lontananza si sente un calpestio, prima sulle scale di legno, poi sul selciato. Mi appresto a varcare la soglia, guidato dal suono di un canto gregoriano — un genere che apprezzo profondamente. Mi accorgo subito che proviene da una registrazione, ma questo non ne sminuisce il fascino: rende più intensa la suggestione della visita.

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La splendida Abbazia di Santa Croce in Sassovivo, arroccata in un idilliaco paesaggio naturale, tra boschi di lecci e olivi secolari, fu fondata dai benedettini nella seconda metà del sec. XI sui resti di una preesistente residenza fortificata dei Monaldi. All’interno del suo vasto complesso, esprime la sua rilevanza il chiostro in stile romanico con le colonnine lisce o lavorate che racchiudono un giardino e la fonte. Nella Chiesa, in cui sono conservati frammenti di affreschi quattrocenteschi, nella Cripta di San Marone, nella Loggia del Paradiso si legge la storia di questo splendido gioiello incastonato nella natura. Dal giardino si gode una splendida vista sulla valle.

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Chiedo a Google Maps di segnalarmi la strada che mi aveva già proposto che collega l’abbazia con la SS 77 val di Chienti. Subito asfaltata, ma la sorpresa dopo Casale è terribile: uno sterrato sassoso e con pendenza forse del 20% e forse più, rende difficile la discesa a biciclette pesanti munite di borse con copertoni da asfalto come la mia, a meno che non si voglia finire all’ospedale. A quel punto un attimo di riflessione: o ritornare sulla via già fatta fino a Foligno e continuare per altra via, o scendere a piedi. Decisi di percorrere quei 3 chilometri, tenendo frenata la bici a mano e irrigidendo la muscolatura per non cadere. Le precedenti preghiere in abbazia furono il supporto per arrivare sulla statale a Scopoli senza danni e lenire le parole oscene e i pensieri cattivi che producevo discesa facendo. La tensione si sciolse lungo la nuova salita fino al passo di Colfiorito una volta raggiunto l’asfalto.

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Il paesaggio piano piano stava mutando: Il percorso da Scopoli al valico di Colfiorito è un crescendo di bellezza naturale, varietà ecologica e suggestioni storiche. Si passa da una valle verde e raccolta a un altopiano aperto e luminoso, attraversando boschi, colline e campagne ancora poco toccate dal turismo. Man mano che si sale, il paesaggio si fa più ampio e montano. Le valli si approfondiscono, gli scorci si allargano. Siamo sopra i 600 metri, ma tra rilievi dolci ed elevati, dove boschi, pascoli e campi coltivati si alternano con equilibrio. Giunti al valico, appare una grande conca: prati aperti, campi già mietuti, un piccolo lago-torbiera. Lì si estende la palude di Colfiorito, riserva naturale, rifugio silenzioso per uccelli e piante rare. Tuttavia, il centro visite era chiuso, e si poteva solo aggirare la riserva lungo un percorso stabilito. Le auto e i camper affollavano il piazzale, mentre pochi visitatori si limitavano a una passeggiata attorno alla zona umida. “Qui, a giugno, il paesaggio è un arazzo vivo: distese di papaveri, margherite, e fiordalisi tingono i prati…” Tuttavia, la mia esperienza è stata diversa da quella immaginata… vidi solo la palude, il suo canneto, e udii il richiamo di numerosi uccelli. I campi erano già tagliati, il raccolto portato via. La valle non aveva che due colori: il verde e l’oro.

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La visita a Colfiorito fu più breve del previsto, e dopo un leggero ristoro ero pronto a calarmi — si fa per dire — verso i Monti Sibillini, con l’intenzione di raggiungere Visso. Tuttavia, varie informazioni mi mettevano in guardia: c’era la possibilità di non trovare un posto dove dormire. “Dopo il terremoto molti sono partiti, c’è ancora tanto da ricostruire. Qualcosa esiste, ma non glielo so dire” — mi dissero in molti. Mi attirava quel luogo remoto, ferito e silenzioso, ma sentivo che non era ancora il momento. Booking, proponeva poche soluzioni e lontane fuori dal paese e con prezzi alti. Le idee si facevano confuse, e il piano perdeva forma. Intanto scendevo. Fu l’incontro con alcuni abitanti di Muccia a chiarirmi la rotta: mi suggerirono di lasciar perdere per ora Visso e dirigermi invece lungo la valle del Chienti, dove le strutture ricettive erano più numerose e operative. A quel punto, decisi: avrei puntato su Tolentino. Un gruppo di cicloturisti con guida mi superò a buon ritmo. Li seguii fino al bel laghetto di Polverina, dove tutti ci fermammo per una sosta. Fu l’occasione per scambiare qualche parola: condividemmo la nostra passione per le due ruote. Venivano dal Belgio, pedalavano attraverso la Regione Marche, con bici sportive e una guida locale al seguito. Giunto a Tolentino, con il telefono ormai scarico, chiesi aiuto per contattare l’hotel che avevo prenotato, qualche chilometro fuori dal centro abitato. Dopo ottanta chilometri pieni di imprevisti, dubbi e deviazioni, il riposo era più che meritato.

Quinta Giornata. Da Tolentino a Recanati a Senigallia 110 Km

Programma saltato, programma rinnovato. Quando si viaggia da soli, la libertà di scegliere è assoluta. Nessun compromesso, nessun confronto, nessuna discussione per mediare alternative: si decide, si cambia, si devia. E a volte, proprio da una rinuncia nasce una scoperta. Il programma originario è saltato, ma qualcosa di più autentico ha preso forma. È in questi momenti che il viaggio si rivela per ciò che davvero è: un percorso interiore, prima ancora che geografico. Già all’inizio di questo racconto avevo scritto: “Alcune parole, alcuni aforismi, bastano da soli a evocare una città, un luogo, un territorio. Diventano simboli di una Storia, di un film, di una vita. Pochi luoghi possono però vantare il privilegio di essere racchiusi in un verso immortale. O, forse, già in quattro semplici parole: “Sempre caro mi fu”. Recanati.

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Avevo visitato, negli anni, molte delle gemme delle Marche: Pesaro, Urbino, Monastero di Fonte Avellana Fabriano, Jesi, Fano. Avevo percorso l’entroterra, fotografato l’armonia del paesaggio e assaporato la profondità della storia. Ma Recanati, la perla leopardiana, mancava ancora nella mia collezione. E fu allora che compresi: la deviazione improvvisa non era un errore, ma diventava contenuto perfetto della giornata conclusiva di questo ciclo-viaggio.

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Tolentino, passo Treia, Recanati: un gioco da ragazzi, ma da percorrere con la dovuta cautela. Queste strade secondarie nascondono pericoli che sono dovuti a tratti sconnessi, vuoi  per lavori o per assenza di lavori di bitumatura, per la presenza di traffico pesante (direi più attento e premuroso verso i ciclisti che in altre parti). 

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Un tuffo nella mia formazione scolastica, un sussulto dentro la mia formazione letteraria, fu la visita a questa splendida dimora. Recanati non era solo una tappa geografica, ma una sorta di studio di livello più elevato. L’approfondimento di un luogo dove visse uno dei pilastri della letteratura italiana: Giacomo Leopardi. Un autore con cui è impossibile non confrontarsi, per la problematicità e la profondità del suo pensiero, per la potenza delle sue opere. Poeta, scrittore, filosofo: un genio che dominava il greco, il latino, l’ebraico, il francese. Le sue strofe, i suoi concetti, hanno attraversato la mia mente nei momenti più disparati della vita, riaffiorando come pensieri ricorrenti, mai davvero dimenticati.

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La visita guidata alla sua casa ha aggiunto umanità al mito. Ho dato ragione alla guida quando ha raccontato che si è sempre studiato, errando, di un bambino fragile, chiuso nel suo pessimismo, illuminandoci invece su di un adolescente prodigio e di un giovane uomo sorprendentemente allegro, affamato di libertà.
“I libri di letteratura andrebbero allora riscritti?” dissi “ No, rispose la guida, soltanto scritti con più cura approfondendo le ricerche”. E poi… la Biblioteca. Un patrimonio immenso: oltre 20.000 volumi – ma che volumi! – oggi meta prediletta di studiosi e appassionati da ogni parte del mondo. Un luogo che profuma di sapere antico, di studio appassionato, di collezionismo instancabile. Il fondamento della conoscenza di Leopardi.

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Accanto ad essa, il Museo, le collezioni private di famiglia, la stanza di Giacomo, la sua penna, il calamaio e…quel manoscritto: oggetti semplici, ma carichi di significato. Testimoni silenziosi di un’esistenza dedicata allo studio, al pensiero, alla scrittura, al dialogo con l’immensità. Lungo quella visita tutto ciò che vidi, tutto ciò che lessi e ascoltai, mi portò a capire perché poche parole, una frase, un endecasillabo restò così sempre presente – e mi rimane – nel mio cuore, più di ogni altra cosa: “Sempre caro mi fu…” Un verso, una carezza dell’anima. Un legame che il tempo e il viaggio hanno portato in superfice ma che né il tempo né il viaggio potrà mai sciogliere.

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Il ciclo-viaggio poteva anche concludersi lì, a Recanati, ma occorreva raggiungere l’Adriatico per riprendere il treno e avviarsi verso casa. E così, ancora una volta, pedalai tra questi colli familiari, che si aprivano a tratti, offrendo scorci pieni di luce, composizioni di colori care a fotografi e cineasti. Li avevo già amati. Ora li amavo ancora di più, come si ama ciò che si è scelto di ritrovare.

"Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare."

Ma stavolta, non era il mare dei pensieri in cui mi perdevo, né il mare dell’infinito leopardiano.
Era proprio lui: il mare fresco, salato, poco mosso di Senigallia. E tutto mi sembrava in Bianco e Nero.

 

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Fernando Da Re

Un cuore, due gambe e una bicicletta. In testa sempre la fresca vivacità di raccontare. Il risultato lo ritroviamo in questo sito da lui creato e portato avanti con l’entusiasmo e l’impeto dell’atleta che cerca risultati.


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