EL VOLCAN (o verso il cielo)

Racconto di Alberto Vaona premiato al Bicicletterario 2016

Nel sacco 7 gradi. In tenda sotto zero. Fuori meno 10.

 "Nel ritmo quasi singhiozzamte si addensa la notevole capacità di descrizione e ancor più di evocazione. La salita verso la vetta, o verso il cielo, è in fondo il ritorno all’essenza che passa per la fatica e la sofferenza. Sorta di catarsi che giunge attraversando l’umanità, scoprendone la ricchezza, entrando nelle sue storie, di gloria e di sconfitta, di solidarietà e di barbarie. Il linguaggio si modella sul ritmo della scalata, durante la quale il pensiero si struttura fino a cogliere la profonda unità delle cose, ma è un attimo irripetibile, l’intuizione che si accende subito sopraffatta dall’infinito meraviglioso quanto inafferrabile."

ciaobici el volcan

Nel sacco 7 gradi. In tenda sotto zero. Fuori meno 10.

Respiro nel sacco a pelo per scaldarmi. Dimitri respira lento.

Il buio è assoluto. Il silenzio di pietra.

Là fuori è Bolivia. Anzi Lipez, deserto freddo. Di sabbia. Severo.

Luoghi più inospitali del pianeta.

Quentena Chico, laggiù. Quaranta chilometri di mulattiere sabbiose. Percorsi con la mappa disegnata da Juan, su foglio di carta. Il proprietario della casa dove abbiamo lasciato l’attrezzatura.

La città, l’ospedale più vicino, a giorni di fuoristrada.

E noi qui. In bici.

Le persone che ci vogliono bene dall’altra parte del mondo.

Chi sa dove siamo a migliaia di chilometri.

Anche se parti dall’altipiano, a tremila e settecento, a quattromila e settecento non dormi.

A quattromila settecento stai sveglio. E aspetti la luce. Per salire.

Lima è a quattromila chilometri. Percorsi a pedali. Mesi. Uno dopo l’altro. Per trovarci qui. E tentare la vetta. Tentare oggi. Ora.

Se il tempo ci assiste. Nei giorni scorsi è nevicato ma ieri e oggi è sole.

L’Uturuncu. El Volcan. Il triangolo doppio, sopra di noi. Nel buio. Aspetta.

Il punto più alto del pianeta dove si possa pedalare: cinquemilatrecento e poi salire a piedi a seimilanove.

L’inutile sfizio di guardare di sotto.

Le quattro del mattino. A quattromilasettecento la luce arriva prima.

È ora. Fuori dal sacco la temperatura sembra ancora più bassa. Anche se abbiamo dormito vestiti. Vestiti da bici. Tute invernali. Per non spogliarsi sotto zero. Sulla pelle il sudore di ieri. Adesivo. La tuta non scorre. Tira elastica sulla pelle. Addosso ancora la polvere della prima parte di salita.

È l’umidità del nostro fiato nel sacco che ora aumenta il freddo.

La cerniera scorre. Siamo fuori. Il sole sorge. L’aria è limpida, pura e gelata. L’acqua nelle borracce ghiacciata. Intorno deserto brughiera. Giù l’altipiano bruno di sabbia nel buio. In alto il cielo terso di stelle e la luna. Piena che guarda.  

La cerniera scorre. Lasciamo tutto. Rialziamo le bici dal sonno di fianco. Cosa sogna una bici?

Strada mineraria. Di un tempo. Che sale. Sale su roccia. Non sale su sabbia. Giù nel Lipez la ruota affonda nella sabbia. Si prosegue spingendo. Qui no.

Il primo pedale è il più duro. E la ruota comincia a girare. Galleggi in salita sui cinque centimetri d’aria nei copertoni.

I visi di questo viaggio irripetibile. Scorrono sulla strada. Gli incontri. E i luoghi.

I ragazzi del Mato Grosso, a Lima e Cuzco. Innamorati del povero. Padre Ugo con loro. Fino a che cerchi Dio con il cervello non lo troverai. Guarda me. Sono prete. Ma con il cervello sono ateo. La teologia della liberazione è stato un movimento di intellettuali. Qui la gente ha bisogno di pane. Noi siamo qui per portarlo.

Ayacucho, la culla del Sendero del profesor Gutzman. La libertà per il popolo. Negata. Conquistata con le armi. Dal popolo. Sogno.

Mario e Vanni. Lima e Ayaviri. Anna e Aurelio a La Paz. Non amano i poveri. Non li vorrebbero vedere. E aiutano le mani a stringersi. E a lavorare insieme. Per il progresso. Il tessuto sociale, la tradizione locale. Salvare il salvabile. E farlo marciare.

Salire è difficile. Le ruote scivolano sui sassi. Il piede spesso scende a terra.

Ma la temperatura inizia a salire. E il sole spunta. Illuminando l’altopiano laggiù.

Riccardo a El Alto. Da così tanti anni. Di notte. Avvicina le ragazzine di strada. Adolescenti o anche meno. Con i loro bambini. E le loro malattie. Le porta alla loro nuova casa. Basta violenza, basta violenza.

Riccardo a La Paz. Di giorno. Nella bolgia infernale. San Pedro. Il carcere da cui il ricatto non ti lascia uscire.

Edit a Colomi. La casa delle ragazze che studiano. Piccole donne che crescono. Gli occhi neri di Edit decisi a cambiare il loro futuro. Il loro destino. Da subalterne a protagoniste. Boliviane per boliviane. Donne per le donne. La Bolivia di domani. Il miracolo della educazione. Il sorriso timido della ragazze.

La quota cresce. Il fiato cala. A cinquemila i pedali girano troppo lenti per stare in sella. E il piede a terra. Ora si spinge. Impronta sulla polvere bianca, la terra ocra. Del Volcan. A volte fumarole di zolfo tolgono il respiro. E gli occhi bruciano.

Suor Cherubina a Vacas. Accoglie bambini. Asilo. La mattina parte in fuori strada. E li raccoglie. Trenta, quaranta bambini schiamazzanti. In un fuoristrada. Asilo per mangiare. Per nutrire. Suor Cherubina dalla Calabria alla Bolivia.

Padre Enrique. Prete quechua. In moto alle comunità isolate. Per battezzare e benedire. Non crede alla superstizione quechua. Ma il Carisiri, lo spirito della malattia, meglio non sfidarlo.

Ernesto e i suoi a La Higuera. Ottobre 67. Dispersi tra fiumi e montagne remote. Lotta armata. Per liberare il continente. Il suo. A la Higuera resta solo la scuola elementare. Dove rimane l’eco dello sparo. Che ha spento il sogno. E una macchia a terra.

Miracolo bici. Mezzo di conoscenza. Stile di viaggio. Strumento per occasioni di incontro.

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La salita continua. Si spinge. Mani strette sul manubrio. E ci si ferma a respirare. La bici pesa. È di pietra. Come il vulcano.

Dimitri segue. Non si arrende. Mai pedalato così alto.

La sella del vulcano. La sella a cinquemilatrecento. Ecco. Ci siamo. Le fumarole di zolfo. Gorgogliano.

Riposo.

Ultimo sforzo. Lasciamo la bici.

Ultimi metri a piedi. Scarpe da bici nella neve. L’acqua che si scioglie e entra. Sulla pelle. Passi lenti. Misurati. Verso l’alto. Uno dopo l’altro. Ostinati.

Dimitri segue.

La cima è lì. La cima arriva.

Il tempo regge. Il sole splende.

Ed ecco. Seimilanove.

Mani al cielo.

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Festa.

Sorpresa.

Immenso panorama deserto. Migliaia di metri là sotto. Deserto di sabbia. Lagune colorate di colori mai visti. Dove immagini fenicotteri rosa. Indisturbati. Intorno una corona di vulcani innevati. Più bassi. Sotto di noi. Sopra di noi il cielo. Blu. Intravedi lo spazio. Nero. Là fuori.

Il piacere inutile di guardare là sotto.

La meraviglia del creato. Il capolavoro perfetto. L’istante irripetibile.

(racconto tratto dal blog di viaggio – pedalande2014.blogspot.it - A zonzo in bici sulle Ande, da Lima a Buenos Aires) Leggi anche Il sole, la bici, l'amore

Alberto Vaona (Verona, 1975) è un medico. Ciclo-viaggiatore da sempre perché contagiato prestissimo dal virus procuratosi usando la bicicletta. Gli itinerari italiani terminarono in fretta e cercò la cura  altrove. Austria, Germania, Francia, Belgio, Olanda, Albania, Kossovo, Grecia e Montenegro. Ha viaggiato in stile ciclo-camping in Argentina, Cile, Bolivia, Perù, da solo e in compagnia. Ha stabilito che la miglior cura è assecondare lo spirito: mens sana in corpore sano.

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