La cicatrice

La cicatrice

 Lui non sapeva che l'inverno a cavallo tra il 1955 e il 1956, sarebbe stato il più freddo del secolo. Ma che fosse freddo, molto freddo, lo sapeva, anzi lo sentiva. La povera casa in cui abitava aveva più di tre secoli, costruita per i bovari di qualche ricco proprietario terriero Veneziano e mai restaurata. Dalle fessure della porta d'entrata, dei vetri e dal tetto entrava tutta la rosa dei venti.

 In collaborazione con Amici della Bicicletta Fiab Verona

Il camino faceva da aspiratore del calore emesso dall'unico impianto di riscaldamento degno di tal nome: la cucina economica. Tuttavia, vuoi per l'inconsapevolezza dei suoi 6 anni, vuoi per il calore affettivo da cui era circondato, il freddo non lo colpiva più di tanto. Anzi, la poca neve caduta, aveva conferito alla campagna un'aria fiabesca. Persino le trappole per i passeri gli sembravano romantiche e per niente crudeli. In fondo era bello uscire nella neve, lasciare le impronte delle scarpe in giro per la corte, senza che la mamma lo sgridasse.

La mamma! Era troppo occupata con i fratellini più piccoli: Angelo, aveva tre anni e Massimo appena undici mesi. Così la mattina passava in beata solitudine. Il pomeriggio, invece, tornavano i fratelli più grandicelli dalla scuola. Soprattutto tornava Renzino, uno dei figli dei vicini. Vicini si fa per dire: abitavano a 150 metri di distanza, ma in campagna le distanze sono relative.Renzino aveva un paio d'anni più di lui, ma era il compagno di giochi preferito. La famiglia di Renzino, brava gente, certo, era ben diversa dalla sua.

Il padre, poi, incuteva un certo timore, con i suoi modi ruvidi da bovaro senza raffinatezze. Circolavano su di lui voci poco rassicuranti. Renzino era buono e simpatico, nonostante un bruttissimo soprannome che gli avevano affibbiato. Egli non andava a trovarlo, per via del padre ma anche per paura di essere sgridato dalla mamma. Quando, però, Renzino passava dietro casa sua di ritorno dalla scuola, si accordavano per trovarsi a metà strada. Quel giorno di fine febbraio del '56 andò proprio così. Quando si videro, notò che Renzino aveva in mano uno "stegagno", l'accetta dal manico corto che i contadini usavano per tagliare i pali.

Suo padre-padrone l'aveva mandato in giro con quell'accidenti per far legna dai ceppi di platano lungo i fossi. Cominciò il lavoro. Renzino era un bambino robusto e forte, ma aveva pur sempre nove anni appena. I fendenti che menava contro i pezzi di ramo erano piuttosto deboli e doveva ripetere l'operazione più e più volte. Il risultato non era molto brillante: scaglie di ramo schizzavano in qua e in là sulla neve. Egli li raccoglieva e li metteva nel sacco che questo si era portato. Troppo grande per essere riempito con i miseri pezzetti di ramo e troppo grande per essere portato da un bambino!

Ad un certo punto allungò la manina sinistra per prendere un pezzetto di legno rimasto incastrato fra due mozziconi di ramo. Non si accorse neppure del rapido movimento del braccio di Renzino che stava calando lo stegagno sul ceppo. Una fitta di dolore e il sangue cominciò a colare e a sporcare la neve. Renzino, confuso, rialzò prontamente lo stegagno. Egli riuscì a ritirare la mano. Le dita erano ancora cinque e tutte attaccate. Un colpo di fortuna aveva fatto sì che lo stegagno rimanesse incastrato tra due mozziconi di ramo. L'indice della mano sinistra era appena stato scalfito.

Prese della neve e la pose sulla ferita e ripetè l'operazione più volte, finché il sangue non si fermò. Dopo si avvolse il fazzoletto da naso attorno all'indice e se ne tornò a casa. La mamma, per fortuna, era troppo occupata con i fratellini piccoli e non fece caso a quella mano nascosta in tasca o sotto il tavolo. I fratelli più grandi erano occupati a fare i compiti o a bisticciare tra loro. Il papà tornò dal lavoro quando lui era già a letto e dormiva. Veramente fingeva di dormire. Il dolore della ferita, lancinante e acuito dal caldo delle coperte e del letto di piume, lo tormentò quasi tutta la notte. Prese sonno verso mattina. Il giorno dopo la ferita era quasi un graffio. Uno dei tanti. Decisamente era andata bene: niente infezioni, niente tetano. Solo un po' di tormento e tanta paura di essere scoperto dalla mamma.

Sorride, Giovanni, mentre si liscia la quasi invisibile cicatrice. Sono passati cinquant'anni da quel freddo inverno del '56, ma il ricordo è ancora vivissimo. Certo che il buon Renzino quel soprannome -"il boia"- un po' se l'era meritato sul campo!

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