La prima salita in bici

prima pedalata

L’idea era di quelle che frullano in testa e ti disturbano finché non te ne liberi in qualche modo e io decisi di liberarmene nel modo più semplice: realizzandola. 

 

in collaborazione con Amici della Bicicletta Fiab Verona

I miei fratelli erano stati più volte in gita sulle Torricelle e Giancarlo, secondo le testimonianze, con il suo corpo minuto da scoiattolo, sembra che se la cavasse benino in salita. Io, al contrario, ho ereditato da mio padre pochi soldi ma molti chili di peso e le salite più impegnative che avevo affrontato fino a quel momento erano i ponti sui canali delle Valli Grandi.

Pensare di affrontare una pedalata di 85 chilometri di cui una trentina in salita era da considerarsi, benevolmente, una follia. Ma ho sempre amato le sfide impegnative e anche allora non mi tirai indietro. Avevo una Bottecchia, color verde oliva, comprata con i soldi del censimento del 1971, quindi quasi nuova e che a me sembrava speciale, con i suoi 6 rapporti. Mi sembrava anche più sportiva perché le avevo sostituito lo stretto manubrio allora in voga con uno da corsa, in alluminio!

Era un po’ dura da spingere ma arrivava a velocità di tutto riguardo. Quanto fosse questa velocità non è dato sapere, dal momento che all’epoca non esistevano tachimetri per bici. L’avevo usata solo in pianura, è vero, ma credevo che anche in salita sarebbe stata in grado di farcela. Più che fiducia nei bicipiti era incoscienza giovanile. Ma proprio in questo consiste l’esperienza: nel commettere errori e poi correggerli.

Dunque decisi di non perdere l’occasione. Quell’anno il campo-scuola per giovani di Azione Cattolica si svolgeva al vecchio Ospizio di Spiazzi, una costruzione servita per tanti anni come Ostello per i pellegrini che scendevano o salivano al Santuario della Madonna della Corona, trasformato in casa per la formazione delle giovani leve Cattoliche. Io, come componente del Centro Diocesano, ero uno degli animatori del Campo e dovevo partecipare. Oltrettutto dal mio paese partivano molti altri ragazzi e ragazze, in pullman.

A loro affidai la mia piccola valigia e, di buon mattino, mi avviai verso l’avventura. In verità avevo fatto dei conti un po’ ottimistici. Contavo, infatti, di metterci al massimo 5 ore, calcolando una media di 17 chilometri orari. Allora non ero Amico della Bicicletta e anche la FIAB era di là da venire, altrimenti avrei saputo che in salita la media si abbassa drasticamente e che anche in pianura servono delle soste “tecniche”. Dunque partii, vestito normalmente e con una semplice borraccia di acqua.

Complice la giovane età (avevo ventidue anni) e l’entusiasmo per l’impresa, arrivai a Verona, dopo 35 chilometri, senza nemmeno una sosta. Solo i semafori cittadini mi costrinsero a delle provvidenziali, brevi, pause. Uscito da via Mameli e imboccato il bel viale alberato verso Parona mi sentivo già vicino alla meta, anche se un po’ affaticato e, soprattutto, affamato e assetato. Fu così che pensai bene di fermarmi a salutare l’amico Don Antonio a Casa Serena di Settimo di Pescantina e lui, da gran signore qual era, e le suore che mi conoscevano e mi volevano bene mi accolsero con grandi festeggiamenti.

Non avevo molto tempo e mi fermai giusto quanto servì per ingollare tutto quello che mi presentarono sotto gli occhi e bevvi come una spugna. Mi ero rinfrancato e, a quel punto, la meta mi appariva vicina. Era un tragico equivoco, determinato dal fatto che ero andato più volte a Spiazzi con la mia cinquecento super veloce (arrivava ai 107!) senza trovare eccessivi ostacoli.

Ripartii, quindi, di slancio, incoraggiato dalle buone suore e da Don Antonio, ma già a Domegliara avevo le gambe legnose e alla prima vera rampa, quella della Sega, mi resi conto dei miei limiti. Seppur arrancando, superai la salita, nella speranza di riprendere fiato nel lungo rettilineo verso Affi. Ma il falsopiano mi appariva sempre più falso.

Ad un certo punto avrei anche voluto fermarmi, ma la corriera mi aveva già superato e non avevo alternativa: dovevo arrivare a Spiazzi in bicicletta. Riflettendo sulla mia dabbenaggine e recitando qualche giaculatoria (allora non usavo ancora le parolacce) arrivai in qualche modo a Platano di Caprino. Lì cominciarono i guai, in forma di salita che sarebbe finita, lo sapevo, solo 9 chilometri più in su. Ero deciso a resistere. Avevo finito da tempo l’acqua che mi avevano dato le suore, ma non volevo fermarmi, perché ero terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia.

Le gambe si rifiutavano di girare e anche il respiro era faticoso, per non parlare del caldo agostano. Alla seconda curva del tornante di Pazzon accadde l’imprevisto: una foratura. Ero insipientemente senza attrezzi per riparare la camera d’aria. Cercare un meccanico voleva dire tornare indietro qualche chilometro e rifare la salita.

Decisi di salire a piedi e così feci. Trovai una fontanella e riempii la borraccia. Dopo un chilometro avevo finito la scorta. Vidi una provvidenziale cascatella di acqua fresca a lato strada. Mi rinfrescai, bevvi avidamente e feci scorta. La salita durò almeno due ore e mezza, durante le quali fui costretto ad entrare in tutti i bar lungo la strada a bere e a fare scorta di acqua. Arrivai all’Ospizio distrutto nel corpo e con il morale a pezzi, ma pur sempre felice di aver ritrovato i miei amici.

Ma la storia non finì quel pomeriggio.

Il giorno seguente fui colpito da un’infezione intestinale che mi costrinse a letto per due giorni con frequenti e repentine corse ai bagni. Imparai così due lezioni: innanzitutto non bisogna mai viaggiare in bicicletta senza attrezzatura per le riparazioni e poi…mai bere l’acqua se non si è sicuri che sia potabile, piuttosto scolarsi una birra! Devo confessare che ancora oggi non amo particolarmente le salite, in compenso, bevo molte birre.

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