Bicicletterario, racconto premiato Ciaobici.it

La lentezza è un viaggio dentro se stessi, alla ricerca di mondi sommersi o sepolti.

 

 

Ci sono molti motivi, per intraprendere un viaggio in bicicletta: lo si può fare per mantenere l’energia viva nelle gambe, per farla agglomerare in fasci di muscoli sodi ed elastici, oppure per strapparsi via di dosso sgradevoli strati di grasso; ma le ragioni non sono soltanto fisiche: spesso sono itinerari interiori, scavano in profondità, lambiscono i recessi dell’anima come una carezza. Si può andare alla ricerca di luoghi che già si conoscono, forse solo per ripercorrerli sotto una luce differente. È il caso della ciclovia che collega Bari e Matera, per me: attraversa colline morbide, meravigliose, boscose; ma, soprattutto, taglia luoghi in cui ho seminato diversi pezzetti della mia vita, nella speranza – forse vana – che germogliassero.

ciaobici bari

Oggi li vado a ritrovare, per cercare di capire cos’è cresciuto, cosa ha attecchito, cosa è seccato.

Mi metto in cammino da solo, sulla mia ibrida rossa a 18 rapporti, tre o quattro dei quali non ingranano. Ho addosso solo un kit di riparazione, una borsa riempita dell’essenziale – un cambio, un pigiama, un beauty case – e qualche soldo. Mi lascio alle spalle la città congestionata, sbuffo via lo smog di chi, la mattina, raggiunge postazioni lavorative in auto, aggiungendo allo stress della routine quello del traffico: le mie due ruote non generano nervosismo – piuttosto, lo scaricano a terra come una puntazza – e non s’inchiodano dietro serpentoni di marmitte ferme al semaforo. Appena fuori, già da strada Santa Caterina, il mondo sembra assumere una dimensione più rurale. L’abitato di Modugno passa al lato come una mosca fastidiosa e, fra gli ulivi, arrivo a Sannicandro in tempo per il caffè.

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Qui, gli alberi m’appartengono. Per circa una settimana mio padre si svegliava prima dell’alba, in pieno inverno, e si preparava per andare in campagna: era la raccolta delle olive. Ne ho un ricordo piuttosto distinto: lo sentivo dal mio letto, avvolto in una rassicurante coltre di coperte, nel tepore dell’impianto di riscaldamento di cui ancora persisteva qualche traccia nei tubi dalla sera prima. Lo sentivo andar via di casa nel buio gelido della notte di dicembre e sprofondavo sotto la cuccia fatta di plaid e lenzuola, immaginando che il cuscino che stringevo più forte fosse la fidanzata che non avevo; così mi riaddormentavo. Fuori imperversava la bufera; sì, magari non era sempre così, ma a volte è successo: sentivo un vento furioso ed erano le quattro del mattino, e l’ultima cosa che poteva desiderare un ragazzino di città era uscire dal letto, vestirsi e andare a lasciarsi frustare dal freddo in mezzo alle campagne.

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Eppure oggi sento di essermi perso qualcosa. Sento che il nostro comfort asettico, più o meno uguale in ogni parte del mondo, mi ha privato di qualche pizzico d’identità, perché il mondo rurale che si raduna attorno a un evento importante nell’arco dell’anno, come raccogliere i frutti da cui produrre l’olio – oro e orgoglio della regione – è l’anima della Puglia in cui sono nato e a cui mi sento indissolubilmente legato. Oggi che mio padre non c’è più, io so che quei momenti in cui ci si scaldava attorno al fuoco, mentre il chiarore dell’alba stendeva la sua luce gelida sulla terra imperlata di rugiada, sarebbero stati preziosi, mi avrebbero insegnato che, forse, la vita può essere fisicamente faticosa, ma anche molto più semplice e lineare di come spesso la ingarbugliamo noi.

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È anche per questo che ho voluto raggiungere questo caffè con la fatica delle gambe, e so che il suo sapore, sebbene amaro, sarà più buono. Da Bari a Cassano si guadagna quota, si fatica attraverso mulattiere secondarie costeggiate da muretti a secco, vigneti, uliveti. Sono i campi che danno i loro frutti fra l’autunno e l’inizio dell’inverno, mentre la vita si va spegnendo. Nel paese che domina l’area della Foresta Mercadante mi fermo a rifiatare.

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Qui è racchiusa gran parte della mia adolescenza. Ci venivamo quasi ogni domenica, dall’autunno alla primavera – perché d’estate, invece, si andava al mare. Eravamo una famiglia unita: io, mio fratello e i miei genitori. Insieme a noi c’era sempre un’altra famiglia, amici dei miei, i cui figli erano diventati, per osmosi, nostri inseparabili compagni di giochi. Siamo cresciuti insieme, fra le vie di pietra e alberi che andavano dal Santuario di Santa Maria degli angeli al bosco. Abbiamo ascoltato centinaia di partite del Bari dalle radioline a transistor, nelle cronache deliranti di Michele Salomone, quando il calcio contava ancora qualcosa, aveva un briciolo di dignità di sport.

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E poi, in quella foresta, ho un altro ricordo indelebile, di pomeriggi di fuga dalla città, alla ricerca di un riparo da occhi indiscreti. Pomeriggi di abbracci nella luce del tramonto che filtrava fra le foglie, di dolori confidati, a volte urlati agli uccelli che si scambiavano commenti da un ramo all’altro. Le chiome degli alberi scosse da un refolo intermittente di vento, qualche animale lontano.

Lontano.

Si condensava, il mondo.

In una carezza.

In un bacio.

A volte in una commistione di umori e carne ancora più intima, fragorosa, saporita. Si condensava così tanto da diventare una goccia concentrata di liquido, ma così concentrata da non sembrare neanche più un liquido. Momenti in cui il mondo esplodeva, come una supernova. È tempo di ripartire: la strada che s’inerpica fra Cassano e Santeramo è distillato della Murgia più pura, è curve e colline, pietre, praterie e adunate di pini e cipressi, di fragni e roverelle. Del paese più alto del percorso non so quasi niente, eppure mi si è svelato attraverso racconti di persone magnifiche, tanto da diventare un mio mondo interiore, mai vissuto ma lungamente vagheggiato. Merita un’altra piccola sosta per un caffè, e per riprendere forze e concentrazione.

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C’è Matera che mi aspetta, attraverso mulattiere che tagliano campagne sempre più piatte e monotone e che, appena varcato il confine fra le due regioni, guadagnano degli accenni di colline morbide ai lati. C’è un borgo magico, scavato nella roccia come si faceva nella preistoria, ma che ha vissuto così, ignaro, fino a tempi relativamente recenti. C’è uno dei posti più incantati del sud della penisola, che solo in questi anni sembra essersi risvegliato da un torpore millenario e aver capito di essere bello, come pochi altri al mondo. Ci arrivo in un tramonto autunnale che infuoca le creste arrotondate delle piccole alture, stagliando le sagome delle pale eoliche in un controluce rovente. Mi perdo, con la bicicletta, fra i vicoli del centro storico, del Sasso Barisano, alla ricerca di un preciso posto scavato nella roccia al quale affidare le mie gambe stanche per il meritato riposo. Le ruote si aggrappano alla pietra del fondo stradale producendo un rumore scoppiettante, mentre gli ammortizzatori faticano per mantenere una disconnessione fra me e le vibrazioni del mezzo.

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Trovo la mia alcova nei sassi. Qui posso farmi una doccia, prima di andare a bere una birra e mangiare qualcosa per tentare di generare nuove energie e ristorare quelle vecchie. Quando torno a quella che per stanotte chiamerò casa, lo faccio attraversando dei vicoli silenziosi, illuminati da lampade fioche, in cui riecheggia il suono di una risata fresca, meravigliosa, eppure lontana. Era lei che cercavo, proprio lei: volevo che mi raccontasse, senza parole, di quanto sono stato felice quel giorno. Che mi dicesse che c’è ancora qualcosa, che è rimasto fra gl’interstizi di queste rocce antiche.

Potevo ritrovarlo solo arrivandoci lentamente. (Manlio Ranieri vedi profilo)

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Fernando Da Re

Un cuore, due gambe e una bicicletta. In testa sempre la fresca vivacità di raccontare. Il risultato lo ritroviamo in questo sito da lui creato e portato avanti con l’entusiasmo e l’impeto dell’atleta che cerca risultati.


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